con il patrocinio di Martha Argerich, Cristina Muti e Fedele Confalonieri
«Primi Premi Internazionali»
Concerto fuori abbonamento
Fryderyk Chopin (1810 – 1849)
Notturno in do minore op.48 n.1
Lento
12 Studi op.10
n.1 in do maggiore
n.2 in la minore
n.3 mi maggiore
n.4 in do diesis minore
n.5 sol bemolle maggiore
n.6 in mi bemolle minore
n.7 in do maggiore
n.8 in fa maggiore
n.9 in fa minore
n.10 in la bemolle maggiore
n.11 in mi bemolle maggiore
n.12 in do minore
12 Studi op.25
n.1 in la bemolle maggiore
n.2 in fa minore
n.3 in fa maggiore
n.4 in la minore
n.5 in mi minore
n.6 in sol diesis minore
n.7 in do diesis minore
n.8 in do bemolle maggiore
n.9 in sol bemolle maggiore
n.10 in si minore
n.11 in la minore
n.12 in do minore
Sin dall’inizio dei suoi studi pianistici all’età di cinque anni, Kevin Chen è stato riconosciuto per i suoi successi nel mondo della musica. Ha debuttato a 7 anni con l’Abbotsford Youth Orchestra. Ha collaborato con orchestre di grande prestigio, tra cui l’Edmonton Symphony Orchestra, il Calgary Philharmonic Orchestra, il National Arts Centre Orchestra, la Taipei Symphony Orchestra, la Warsaw Philharmonic Orchestra, l’Orchestre de la Suisse Romande e la Hungarian National Orchestra, tra le altre.
A soli otto anni, ha conquistato il primo posto al Canadian Music Competition.
In seguito, è stato nominato uno dei “30 migliori musicisti classici canadesi sotto i 30 anni” dalla Canadian Broadcasting Corporation e uno dei “100 canadesi straordinari” dalla rivista Maclean’s, il tutto mentre Kevin non aveva ancora compiuto dieci anni.
La sua carriera si è sviluppata a livello internazionale, ricevendo ampi consensi grazie a una serie di vittorie in prestigiosi concorsi. Tra i traguardi più significativi, si annoverano il primo premio all’Arthur Rubinstein Piano Master Competition a Tel Aviv (marzo 2023), il primo premio al Concours de Genève (novembre 2022), il primo premio al Franz Liszt International Piano Competition a Budapest (settembre 2021), il primo premio all’Hilton Head International Piano Competition (marzo 2020) e il primo premio all’International Piano-e-Competition a Minneapolis (luglio 2019).
Oltre a suonare nelle più importanti sale da concerto del mondo, come la Carnegie Hall di New York, il St. John’s Smith Square a Londra e la National Concert Hall di Taipei, Kevin è stato invitato a partecipare a numerosi festival, tra i quali il Festival International de Piano de la Roque d’Anthéron, l’International Chopin Festival a Duszniki-Zdrój, il Chopin and his Europe Festival a Varsavia e l’Oxford Piano Festival.
Da ottobre 2023 studia presso la Hochschule für Musik, Theater und Medien di Hannover con il Professor Arie Vardi.
È ospite per la prima volta di Serate Musicali – Milano.
***Nota di Passaggio***
«Suonare i 24 Studi di Chopin è una grande impresa che Kevin Chen affronta con sbalorditiva sicurezza e semplicità.
I 24 Studi di Chopin sono una pietra miliare e una prova importantissima ed estrema perché, oltre che di difficoltà tecnica infinita, sono anche un’opera d’arte, come tutto quanto ha scritto Chopin.
I 24 Studi di Chopin sono un monumento, un capolavoro, oltre che un tour de force che raramente viene affrontato.
Il giovane Chen, vincitore del 1° premio Liszt, del concorso di Ginevra e del 1° premio Rubinstein impegna tutte le sue forze per darne una versione importante e forse sensazionale».
Hans Fazzari
Notturno in do minore op.48 n.1
I Due Notturni op.48 furono composti nel 1841 e dedicati a mademoiselle Laure Duperré. Il primo Notturno è una sintesi delle nuove caratteristiche stilistiche acquisite da Chopin in quel periodo: la Marcia (Lento), il Corale (Poco più lento) e la scrittura sinfonistica (doppie ottave nella seconda parte del Poco più lento) e del successivo Doppio movimento. Nel Lento si sovrappone alla marcia una melodia ampia e ritmicamente ricca, mentre nel Poco più lento il tema del corale è armonizzato con accordi a volte arpeggiati, tale da costituire l’antecedente della scrittura pianistica del Preludio, Corale e Fuga di Franck. Le doppie ottave inserite in un discorso piuttosto denso armonicamente determinano sonorità molto solide e compatte.
12 Studi op.10
Come notato sagacemente da G. Belotti nel suo autorevole scritto sull’opera di Chopin, cui ci affidiamo in queste note, l’op. 10 è dedicata a Franz Liszt, con il quale in quegli anni era in amicizia e in intimità. Chopin non era un entusiasta della musica del collega ungherese (non certo quanto Liszt amava la sua), ma ne ammirava senza riserve le capacità esecutive e certamente taluni spunti di forza che in lui mancavano. In una lettera a Ferdinand Hiller del 1833, egli scrive: «Non so cosa scarabocchia la mia penna perché in questo momento Liszt sta suonando i miei ‘Studi’ e mi toglie di senno. Vorrei proprio rubargli il modo di rendere i miei propri Studi». Chopin insegnò a tutti i suoi allievi, ai primi come agli ultimi, gli Studi op.10 i quali, del resto, furono ammirati dai musicisti della sua cerchia. Liszt, nella lettera a Hiller appena ricordata, li definì “ammirevoli”, la sua amante Marie d’Agoult (alla quale saranno dedicati quelli op.25), scrisse che erano “prodigiosi”. Schumann non li recensì, ma li nomina spessissimo negli altri scritti, considerandoli un classico nel loro genere. Furono inoltre molto apprezzati dagli altri pianisti che li comprarono per sé e per i propri scolari, favorendone un largo successo commerciale.
Studio n. 1 in Do maggiore op. 10. Può essere considerato un modello per osservare con quale genialità Chopin abbia concepito, in modo assolutamente nuovo e originale, un tipo di composizione vecchia ormai di secoli. Il fatto che esso è, forse, il primo di tutti dimostra che questa concezione non fu elaborata lentamente concatenando diversi elementi per dar loro sostanza nuova, ma fu una folgorazione, la conseguenza di quell’intuito potente e sicuro che era alla base della sua natura musicale.
Studio n.2 in La minore op.10. È esso pure un modello della nuova concezione chopiniana. Se il primo era basato sull’arpeggio, questo lo è sulla scala cromatica, entrambe formule che concentrano l’attenzione di tanti autori di Studi, tra i quali un precedente immediato si trova nel n.3 degli Studien für Pianoforte op.70 di Ignaz Moscheles. Per evitare di essere frainteso, nella bozza di stampa Chopin indicò di sua mano accuratamente la diteggiatura scrivendo circa 500 numeri, caso piuttosto raro, e per fortuna due pagine di bozze ci sono pervenute.
Studio n. 3 in Mi maggiore op. 10. Caso piuttosto raro, di questo Studio ci sono pervenuti sia il foglio di redazione, sia la bella copia con la data autografa del 25 agosto 1832. Siamo così in grado di seguire il travaglio di composizione di questo lavoro che è forse l’ultimo composto dell’op.10. A differenza dei due precedenti che sono esclusivamente in figurazioni, qui abbiamo un tema a motivi, anzi uno dei suoi più famosi e cantabili,che gli piaceva in modo particolare tanto da considerarlo, come confessò all’allievo Gutmann, il più bello che avesse mai inventato e che gli ricordava la patria. Una reminiscenza della musica popolare polacca può essere ravvisata nella struttura del tema principale, le cui frasi irregolari (formate da misure 5 + 5 e 5+ 4 + 4) non sono poi comuni in lui che prediligeva, nelle opere di taglio professionale, frasi e periodi quadrati. Lo Studio in Mi maggiore presenta ancora una novità: l’intento virtuosistico vi è del tutto secondario mentre assume rilievo l’interpretazione espressiva, tutt’altro che facile, come del resto in alcuni altri (il n. 6, il n. 9, il n. 12).
Studio n. 4 in Do diesis minore op. 10. Come già nel primo, anche in questo Studio è percepibile l’influenza di Bach, e ci vengono in mente i Preludi in Do minore e in Re maggiore del primo volume del Wohltemperierte Klavier nonostante la vistosa atmosfera diversa, qui profondamente romantica, e il presupposto di uno strumento e di un virtuosismo radicalmente cambiati e molto più evoluti. Anche in questa seconda coppia di Studi il contrasto è vistoso: di carattere lirico l’uno, passionale l’altro, il primo basato su un tema a motivi, il secondo su un tema a motivi, il secondo su un tema in figurazioni, piuttosto lento il n.3, molto veloce il n.4, ma pensati come da eseguirsi l’uno di seguito all’altro senza soluzione di continuità, come indica l’annotazione alla fine di quello in Mi maggiore.
Studio n.5 in Sol bemolle maggiore op.10. Sui tasti neri più che uno Studio è uno Scherzo, non nel senso di genere musicale o di movimento di Sonata, ma nel senso originario di gioco, di burla. Liszt, nella seconda edizione del suo libro su Chopin, lo chiama “fantasia burlesca scoppiettante di brio” e anche “improvvisazione piccante”, ed una leggiadra improvvisazione in salotto mondano sembra essere alla sua origine, più che un ‘esercizio’ come tanti altri pezzi di quest’opera 10. L’autografo reca l’indicazione: “legatissimo e leggerissimo” che sembra corrispondere al carattere del brano molto meglio del “vivace e brillante” che si trova nelle edizioni originali. In questo Studio sono numerose le diteggiature originali dalle quali possiamo capire come l’autore si regolava nell’esecuzione: egli usava senza il minimo imbarazzo il pollice sui tasti neri non solo quando si copre un intervallo di ottava (come nelle miss. 3 e 4), ma anche in intervalli si sesta, quinta e quarta (come nelle miss. -2), prova che alle severe norme della scuola egli sostituiva la disinvoltura, la praticità, la comodità di esecuzione, garanzia di dolcezza e scorrevolezza, anche sfidando l’arcigna riprovazione dei maestri del suo tempo. Con Kalkbrenner in testa. Chopin non apprezzava lo Studio in Sol bemolle in modo particolare. Nel marzo 1839 Clara Wieck, che l’anno seguente avrebbe sposato Robert Schumann, giunse a Parigi e Julian Fontana l’ascoltò, gli piacque e ne scrisse all’amico, in quel tempo a Marsiglia, il quale l’aveva conosciuta per mezzo di Schumann e l’apprezzava assai. Sulla metà di aprile Clara diede un concerto nel corso del quale suonò questo Studio e puntualmente Fontana ne informò il compositore che, nel rispondergli il 15 del mese, scrisse: «[Clara] Wieck ha suonato bene il mio Studio? Come ha potuto suonar bene, invece di scegliere qualcosa di meglio, lo Studio meno interessante per chi non sa che è stato scritto per i [soli] tasti neri? Avrebbe fatto meglio a star zitta». Ma il nostro giudizio è di gran lunga più positivo.
Studio n. 6 in Mi bemolle minore op. 10. Ecco ancora una volta uno Studio diverso dai precedenti, anzi una composizione che sembra in contrasto con il concetto di Studio perché il virtuosismo, per lo meno come comunemente lo si intende, qui non c’è proprio. Per questo è stato definito in modo differente dagli autori che se ne sono occupati: Canzone, Notturno, Lirica, tanto assomiglia a un’elegia. Ma la difficoltà di suonare il pianoforte non consiste solo nell’eseguire tante note in poco tempo e nell’affrontare con la dovuta disinvoltura le diverse formule strumentali, ma anche (e per Chopin, soprattutto) nel saper ricavare un certo tipo di suono, nel saper creare sonorità differenti in diverse zone del pianoforte sfruttate contemporaneamente, nel saper fraseggiare con una logica che renda convincente, comprensibile il senso di un pensiero musicale.
Per questa ragione lo Studio n.6 è uno dei pochi Studi con tema a motivi, è tutto costruito su tre fasce sonore contemporanee ben distinte, e le indicazioni dell’autore: “con molta espressione” per la voce superiore e “sempre legatissimo” per quella intermedia, rendono chiaramente il tipo di esecuzione cui l’interprete deve mirare. La mancanza di una notazione autentica di pedale potrebbe stupire (come già per il n.3), più di quanto non avvenga per gli Studi n.2 e n.4. Ma è ormai opinione concorde degli specialisti che la mancata indicazione non sempre sta ad indicare la volontà dell’autore di non usare il pedale, ma piuttosto la sua preferenza di lasciarlo ad libitum dell’esecutore, che deve tener conto dello strumento che usa e del luogo in cui suona. Che nel suo ambito questo Studio sia tra i più difficili lo dimostra il fatto che non è quasi mai eseguito; le difficoltà virtuosistiche si superano più facilmente di quelle stilistiche ed espressive! Eppure, se per l’invenzione è una delle liriche più tipicamente “chopiniane”, ancor più struggente del pur bellissimo (e notissimo) n.3, musicalmente è una realizzazione armonica che supera tutto ciò che era stato immaginato, e che si poteva immaginare, al tempo suo. L’aspetto polifonico non inganni: siamo più vicini a Wagner e a Debussy che a Bach, come del resto è stato già ricordato da Robert Collet e da Paul Badura-Skoda.
Studio n. 7 in Do maggiore op. 10. Si è già osservato che i primi sei Studi seguono uno schema in base al quale ad uno in tonalità maggiore ne segue uno nella relativa minore; inoltre, le tonalità maggiori si susseguono per terze (Do, Mi, Sol) e vi è profondo contrasto di carattere, di tipo espressivo, di movimento tra lo Studio in maggiore e quello in minore, per cui i primi sei si prestano, o addirittura richiedono di essere eseguiti a coppie. Questa cornice ora si interrompe; evidentemente quando decise di pubblicare la serie Chopin non disponeva di uno Studio in tonalità maggiore di Si e uno in una tonalità minore di Sol. Anzi, dal momento che aveva composto o abbozzato in quel momento molti altri Studi (che poi costituiranno l’op.25) si rese conto che una cornice complessa, come quella forse in un primo tempo immaginata, non poteva esser condotta a compimento e la interruppe inserendo questo Studio in Do maggiore che affronta il problema delle note doppie il quale, se aveva ottenuto qualche attenzione degli autori precedenti (vedi per esempio gli Studi di Cramer in Do maggiore, Sol minore, Si bemolle maggiore, Do maggiore, nn. 21, 24, 42, 50, ecc.), è sempre presente nella musica di Chopin anche se egli vi diede soluzioni diverse. Tuttavia, qui non troviamo tanto il riflesso di un ‘esercizio’ precedente, quanto un’impostazione tecnica che doveva venir spontanea al compositore.
Studio n.8 in Fa maggiore op.10. Uno dei più popolari forse, perché uno dei più usati didatticamente nei Conservatori ed anche uno dei più caratteristici non solo per il ricorrente tema dell’indipendenza ritmica delle due mani, ma anche per l’estensione, per l’inconsueta scala pentatonica, anche se qui è una scelta e non una necessità, per le preziosità armoniche, come il passo delle miss. 35-40 che, nonostante il tentativo di analisi di alcuni studiosi (e qualche correzione di taluni revisori), resta sostanzialmente atonale. L’attacco bruciante dello Studio non è senza riferimenti a quello del n.4, mentre l’indicazione iniziale, “veloce”, deve intendersi più nel senso di scorrevole che in quello suo proprio, per evitare che una esecuzione eccessivamente rapida sciupi, o addirittura annulli, il valore espressivo di questo splendido Studio. Una preoccupazione di questo tipo doveva inquietare anche Chopin. Infatti, l’autografo attualmente proprietà della Società Chopin di Varsavia, ha il tempo alla breve e il metronomo indica 96 per minima; nelle bozze fu corretto in 4/4 e il metronomo a 88 per minima, proprio per evitare interpretazioni troppo precipitose.
Studio n. 9 in Fa minore op. 10. Quantunque in molti non ne siano ancora convinti, questo è uno degli Studi più difficili della raccolta, come il precedente n.6. Non presenta problemi di carattere virtuosistico a un buon pianista, ma può facilmente esser reso ridicolo o volgaruccio se non ne viene curata con grande finezza la delicata espressione e le infinite sfumature dinamiche, cinetiche e di tocco. È uno degli Studi con tema a motivi e, come spesso in questi casi, il tema è messo in rilievo da un accompagnamento in figurazioni. Quantunque mutevole di espressione ad ogni sua entrata, il carattere del tema nel suo insieme, e nell’intero brano, è ansioso, agitato, ma basta poco a farlo divenire angosciato e dunque una caricatura.
Studio n. 10 in La bemolle maggiore op. 10. Secondo Hans von Bülow il pianista che sa rendere in modo perfetto questo Studio può vantarsi di aver raggiunto la vetta del virtuosismo. Il che può essere vero, ma si può dire lo stesso di altri pezzi della raccolta che non meno di questo presentano grandi difficoltà di ordine tecnico, come anche di quelli che presentano difficoltà di carattere espressivo. Piuttosto merita notare che una notevole difficoltà all’esecuzione deriva dalla cangiantissima ritmica la quale, per esempio, nelle sole prime quattro frasi presenta quattro soluzioni diverse e tutte in contrasto con la parte accompagnante, difficoltà aggravata dal fatto che le edizioni originali sono diverse tra di loro nelle indicazioni e diverse dall’autografo che è molto più preciso, per cui si può dire che ogni editore ha offerto una sua versione, facilitato in questo dal fatto che l’opera è melodicamente ambigua, nel senso che non può definirsi nettamente né a figurazione né a motivi, o anche che essa è basata su una figurazione un po’ particolare, oppure su motivi non ben delineati, indeterminatezza che lo Studio op.10 n.10 condivide con quello op.25 n.4.
Studio n. 11 Mi bemolle maggiore op. 10. È il più trascurato degli Studi senza che se ne veda una ragione accettabile. Esteticamente è valido quanto qualsiasi altro e da un punto di vista tecnico è utile come pochi altri, ancorché una sua esecuzione corretta sia impresa particolarmente ardua. Il problema affrontato è del tutto simile a quello che era alla base del primo Studio: non tanto un irrealizzabile ingrandimento della mano, quanto un modo di ottenere una grande elasticità, una grande morbidezza del polso, la sua flessibilità laterale, una grande dolcezza nel movimento congiunto di polso e avambraccio unita al massimo controllo delle dita. Il mezzo usato per affrontare questi problemi, gli ampi accordi arpeggiati, ha illustri precedenti, può risalire al settimo Notturno in Do maggiore di Field, come suggerisce il Branson, ma molto più probabilmente a Moscheles, il cui Studio n.2 in Mi minore dell’op.70, basato sulla stessa tecnica, è utilissimo confrontare con questo di Chopin per constatare la differenza di statura musicale tra i due musicisti, nonostante che il Marmontel li stimi alla pari.
Studio n.12 in Do minore op. 10. Dopo il più trascurato, lo Studio più famoso, più popolare, divenuto tale non per una particolare trascendente difficoltà (che, invero, molti altri sono più difficili), né per la sua eccezionale bellezza (è splendido, naturalmente, ma tanti altri non lo sono da meno), ma per un titolo e per una storia. Il titolo, Il Rivoluzionario o Lo Studio della Rivoluzione, gli viene da Liszt; dunque, non «da gente di pessimo gusto» come riteneva Casella, e la storia, raccontata per primo del Karasowski, narra che lo Studio nacque di getto, come improvvisazione, a Stoccarda, nel momento in cui Chopin venne a sapere che i russi avevano stroncato l’insurrezione dei polacchi e avevano occupato Varsavia. Un’ultima osservazione. Dato l’eccezionale impulso cinetico impresso all’opera dalla mano sinistra, si presentò il problema di portarla a una conclusione convincente. Chiudere bruscamente non era stilisticamente corretto, interrompere le figurazioni con una Coda tradizionale contraddiceva la coerenza formale dello Studio, ed ecco che il genio di Chopin si manifestò in tutta la sua grandezza. Aumentando il tema dalle iniziali otto misure a sedici, creò un’impressione di esaurimento, di collasso, che, staccandola nettamente dal testo che precede, rende grandiosa, ineluttabile, quasi una resurrezione, l’ultima “appassionata” discesa delle mani all’unisono.
12 Studi op. 25
Una seconda serie di Studi diviene meno popolare ed esercita minore influenza della prima; per quanto immotivato e ingiusto sia questo fatto (e basti pensare al secondo libro del Clavicembalo di Bach o a questa serie di Studi di Chopin), non lo si può che constatare e già lo fece Schumann sostenendo che le raccolte posteriori di Studi sono meno interessanti perché la fantasia del compositore s’inaridisce facilmente nel ristretto quadro dello Studio: «Sui leggii dei pianoforti si vedono più di frequente i primi quaderni degli Studi di Cramer, di Chopin, ecc., che non i secondi». Quando l’immenso successo del primo fascicolo lo indusse a pubblicarne un secondo, disponeva di una dozzina o poco più di Studi e non poté operare scelta alcuna, per cui nell’op.25 non è ravvisabile nessun ordine, nessuna cornice che li leghi l’uno all’altro, e nemmeno rapporti di tonalità (solo quattro sono in maggiore e otto sono in minore), mentre il contrasto tra uno Studio e il seguente a volte c’è e a volte non c’è.
Lo Studio op.25 n.1 in La bemolle maggiore uno degli ultimi Studi composti e idealmente dedicato a Maria Wodzinska. Sugli arpeggi a due mani. Una pagina d’infinita poesia, che Chopin amava eseguire insieme al seguente, in Fa minore, relativa minore del precedente (La bemolle). L’unica coppia di questa seconda serie che possa compararsi alle cinque indicate nella prima serie. Chopin suonava i due Studi l’uno di seguito all’altro come testimoniato da Schumann.
Possiamo ancora forse rammentare un’esecuzione per bis di questo azzurro studio-poesia, a Milano da parte di Friedrich Gulda, giovane, per Serate Musicali, di estrema difficoltà per la necessaria eguaglianza.
Scrive Schumann: «Ho avuto fortuna di sentire questi Studi [= op.25] suonati per la maggior parte da Chopin stesso […] Si immagini […] un artista che fonda i suoni in ogni sorta di arabeschi fantastici, in modo però da sentire sempre un suono grave fondamentale e una morbida nota alta […] Sbaglierebbe chi credesse che egli faceva udire ognuna delle piccole note: si sentiva piuttosto un’ondulazione dell’accordo di La bemolle maggiore rinnovato di tempo in tempo dal pedale […] Una sola volta, a metà del pezzo, si sentiva chiara una voce di tenore sovrapposta al canto principale».
Studio n.2 in Fa minore op.25. È il secondo Studio “nuovo” dell’op.25, dedicato idealmente a Maria Wodzińska; nella tonalità relativa minore del precedente, forma con quello l’unica coppia di questa seconda serie di Studi che possa paragonarsi alle cinque indicate nel ciclo precedente, quantunque qui manchino gli elementi di contrasto che caratterizzavano quelle. Questi due Studi Chopin non solo li suonava uno di seguito all’altro, come testimonia Schumann, ma li prediligeva al punto che sappiamo, dai programmi o dalla stampa del tempo, che li eseguì in almeno sei dei suoi concerti, dal 1842 al 1848, cioè, praticamente, in tutti quelli che diede in quel periodo, meno un paio.
Lo Studio n.3 op.25 è particolare.È del tipo a figurazione per la costante unità del movimento: è del tipo a motivi, per il disegno melodico ben delineato. Per l’esecutore il tema è costituito da piccoli gruppi formati da due semicroma e da una croma, mentre la mano sinistra asseconda con un disegno di carattere discendente e di ritmica simile: le altre cellule risultano sussidiarie.
Lo Studio n.4 in La minore op.25 ha grandi difficoltà e non solo per i salti della sinistra, per ottenere una sicurezza di presa (sbalzi anche di due ottave Mi-Si).
Il problema era già stato proposto da Weber ma Chopin propone la dosatura del peso della mano, come elemento fondamentale. La mano destra è impegnata contemporaneamente su due piani esecutivi contrastanti: le dita deboli suonano legato (ma spesso il compito è assegnato al solo dito mignolo) mentre le dita forti suonano staccato, doppia funzione della mano destra che è molto sentita da Chopin il quale l’aveva affrontata cinque volte, con diverse proposte, nell’op.10 (Studio nn. 2, 3, 7, 10,11) e che ancora affronterà in quest’op.25 e anche nei Nuovi Studi, nel terzo dei quali si ripropone proprio il tema didattico di questo. Questo Studio è un po’ ambiguo nella sua struttura intima (come quello op.10 n.10), un po’ particolare come figurazione e non ben delineato come motivo, con la melodia distinta solo in alcuni passi legati. Si pone, cioè, a metà strada tra gli Studi a figurazione e quelli a motivi.
Studio n.5 in Mi minore op.25. È stato osservato che la maggior parte degli Studi di Chopin è del tipo a figurazione (|) ma che alcuni sono a motivi anche se chiaramente delineati.Ecco ora uno Studio tripartito, non solo per la sezione centrale è in tonalità diversa (come n.3 op.25).Il tema didattico è centrale per l’opera di Chopin: la corretta esecuzione delle acciaccature che precedono un accordo.La sezione centrale è invece un brano poggiante in tre fasce sonore di cui la più acuta è una serie di magici arpeggi, quella di centro contiene la melodia, quella inferiore è di sostegno, insomma un tipo di scrittura che Thalberg aveva messo in gran voga e che Liszt farà sua, senza che nessuno dei due raggiunga le vette di Chopin.
Studio n.6 in Sol diesis minore op.25. Questo è uno degli Studi più noti e più difficili da un punto di vista virtuosistico, o forse è noto per tale motivo. È il famoso Studio sulle terze, una tecnica piuttosto complessa e che non era molto sviluppata prima di Chopin, nonostante un consistente apporto in questo campo di Hummel. Fino ad allora serie consecutive di terze e di seste non erano molto usate perché se ne otteneva una sonorità piuttosto rigida e poco espressiva e per lo più si trattava di brevi sequenze di terze o seste parallele. Con Chopin tutto ciò cambiò, perché egli riuscì a superare il problema tecnico in modo che anche con terze e seste si potesse ottenere un suono di ottima qualità, ricco di sfumature dinamiche dal “mezza voce” al “leggerissimo”.
Studio n.7 in Do diesis minore op.25. È uno dei più famosi, ma è difficile credere che sia nato come Studio. Difficoltà tecniche di rilievo non ve ne sono e chi sostiene che si tratta di un esercizio di agilità per la mano sinistra, si lascia impressionare più dagli occhi che dalle mani, o dalle miss. 27 e 52, che in realtà non sono che un ornamento costituito la prima volta da una scala di Mi bemolle maggiore, appena modificata nella parte discendente, e poi da una scala cromatica ascendente. Si tratta, invece, di una specie di Notturno, o meglio, di un’elegia in duetto le cui difficoltà sono tutte di carattere espressivo, di tocco, di sonorità, e sono grandi. È un’invenzione che risente del clima del teatro, così caro a Chopin e questo giustifica chi crede di vedervi influenze de I Capuleti e i Montecchi e della Norma di Bellini, come Abraham e Valetta, ma sono opinioni che non convincono perché lo Studio doveva essere largamente impostato quando egli sentì per la prima volta la musica di Bellini.
Studio n.8 in Re bemolle maggiore op.25. Si è già osservato che il problema delle doppie note era molto sentito da Chopin, e qui abbiamo ancora una volta un saggio di come egli sapesse risolvere con potenza d’arte somma elementi di tecnica piuttosto arida. Questo Studio non è famoso come quello in terze, forse perché la sua intima poesia è più difficile da mettere in luce, eppure per rendersi conto di cosa può ottenere un genio da semplici elementi meccanici, basta confrontare questo lavoro con quello in La minore op.24 di Cramer, che può essere considerato un precedente.
Studio n.9 in Sol bemolle maggiore op.25. È uno Scherzo proprio nel senso con il quale abbiamo attribuito questo appellativo al n. 5 dell’op. 10 di cui ha, più o meno, lo stesso spirito, quantunque questo non nasca da alcuna bizzarria. Curiosamente è nella medesima tonalità e nell’istesso tempo, tanto che L. Godowski nei suoi Studien über die Etuden von Chopin, ispirandosi al carattere delle due opere e alla uguaglianza di tonalità, tempo e movimento, creò con badinage un pezzo diabolico in cui i due Studi sono suonati insieme, contemporaneamente, l’uno con una mano, l’altro con l’altra.
Anche quest’opera si colloca a metà strada tra gli Studi a figurazione e quelli a motivi, dal momento che sia la copia manoscritta (servita per l’edizione tedesca) sia le edizioni originali non distinguono con particolare grafia nessuna linea melodica, salvo la prima nota di ogni quartina che ha valore di croma. La melodia di questo Studio ha una impressionante affinità con il tema iniziale del Vivace finale della Sonatina op. 79 di Beethoven, del quale, curiosamente, ha eguali anche la Tonica, il movimento, il tempo e la dinamica d’inizio. Sembrerebbe uno dei tanti casi di reminiscenza inconscia se non sapessimo da Wilhelm von Lenz che Chopin conosceva poco o nulla delle ultime opere di Beethoven, e qui sorge il dilemma: o questa Sonatina l’aveva per lo meno sentita e il tema del Vivace gli si era fissato nell’inconscio, oppure si tratta di un caso di incontro, ma tale da mettere in crisi parte, almeno, delle nostre teorie sulla reminiscenza musicale.
Studio n. 10 in Si minore op.25. È il primo dei tre eccezionali Studi che concludono l’op. 25, tutti e tre in minore, tutti e tre di impressionante drammaticità, pur diversissimi nei caratteri espressivi, ognuno degno di concludere superbamente la serie, come quello in Do minore conclude l’op. 10 o come il Preludio in Re minore conclude l’op.28. Lo Studio op.25 n.10 è chiaramente strutturato come una canzone, dunque tripartito, con la sezione centrale che contrasta per tonalità, per carattere, per elementi didattici e per proposte tecniche con le due estreme; come il precedente n.5 ha la sezione di mezzo a motivi e le altre a figurazioni, con il medesimo rapporto tra le due tonalità (minore – parallela maggiore), ma a differenza di quello ha la melodia nella parte acuta. Il problema tecnico affrontato è quello delle ottave legate, un problema in sé poco sentito da Chopin che le ottave non amava, ma trattato, nelle due sezioni estreme, in modo niente affatto ‘chopiniano’, cioè con doppie ottave in pesante tecnica di braccio che non trova riscontro nell’opera sua.
Robert Collet ritiene che lo Studio sia stato scritto perché Liszt lo suonasse; è un’ipotesi affascinante e anche a non volerla sposare fino in fondo si può sostenere che Chopin si ‘ispirasse’ ad un particolare aspetto del pianismo del collega ungherese, e lo possiamo credere sapendo quanto amasse il di lui modo di suonare, pur tanto diverso dal suo, non solo negli anni in cui la loro comunione era più stretta (1832-1837), ma anche dopo che l’amicizia si era incrinata per gravi dissapori, come prova l’ammirazione che dimostrò nel 1842 quando il von Lenz gli sottopose la diteggiatura di Liszt alla Sonata op.27 di Beethoven. La violenza dei sentimenti alla base di questo Studio è magnificamente rappresentata da quel “il più forte possibile” della mis. 115, che riguarda tutte le ultime cinque misure e che è documentato solo altre tre volte nell’opera chopiniana, ma l’interprete ricordi che i suoni eccessivamente rumorosi, il fracasso pianistico, erano aborriti da Chopin e dunque regoli la sonorità in modo che pur nella potenza della intensità dinamica, il suono resti puro e mai ‘schiacciato’.
Studio n.11 in La minore op.25. Come il precedente questo Studio è di grande intensità drammatica, come quello di presterebbe a concludere la serie ed è conseguenza diretta del tumulto spirituale che la notizia della caduta di Varsavia suscitò nel suo autore. Non si stratta solo del carattere veemente ed eroico dell’opera, che sarebbe un elemento troppo soggettivo e magari letterario, o il suo esser simmetrico con quello in Do minore dell’op.10, con un tipo simile di figurazione e di struttura del motivo, con solo l’inversione dei compiti tra le due mani, che potrebbe essere una coincidenza, perché a questi due elementi altri se ne aggiungono, ancor più precisi. Si è osservato come nei momenti di fortissima tensione psichica in Chopin riaffiorassero inconsciamente reminiscenze di altri autori e di musiche sentite da ragazzo, e qui, nella struttura dello Studio, abbiamo impressionanti reminiscenze di Field. La grandezza del genio di Chopin apparirà in modo potente se si confronta lo Studio con quello in Do maggiore n.8 di Cramer che, particolarmente nelle prime otto misure, non manca di affinità con questo.
Studio n.12 in do minore op.25. Se ognuno dei tre ultimi Studi può fungere da conclusione del ciclo, questo per grandezza, per maestosità, per imponenza ne è certamente il più adatto e Chopin, con il suo infallibile intuito, come tale lo individuò. Non solo questo: sappiamo che Chopin suonava spesso lo Studio op.25 n.12, anche in pubblico; lo suonò, per esempio, nel concerto del 21 febbraio 1842 insieme con gli Studi n.1 e n.2 dello stesso ciclo. È una delle composizioni che Schumann apprezzava di più. Opera raffinata, pur avendo subita una lunga elaborazione, conserva la tremenda grandiosità, la passionalità dell’intuizione iniziale, perché se i precedenti Studi “politici” erano riflesso di un’espressione soggettiva, della sua personale ribellione contro l’aggressore, qui prevale il sentimento oggettivo della Polonia: è un canto drammatico ed epico della nazione sconfitta e martire, ma che conserva ed esalta nello spirito quelle forze che la porteranno prima o poi alla insurrezione e al riscatto. È l’unico Studio costruito con figurazioni veloci in entrambe le mani per tutta la durata della composizione e questa concezione in un’opera di una certa lunghezza (83 misure) avrebbe potuto generare monotonia, pericolo che Chopin evita con tre accorgimenti: l’andamento delle figurazioni non è sempre parallelo per le due mani che a volte suonano in modo contrario.